
Due anni fa Anna Wiener pubblica un memoir sulla sua esperienza umana e professionale in Silicon Valley. Una valle “uncanny” nel titolo originale, misteriosa è sconcertante, che diventa “oscura” nella traduzione di Adelphi.
È in effetti un percorso dantesco quello che fa la protagonista, passando da una start up tecnologica all’altra. Girone dopo girone, svela l’inconsistenza e le contraddizioni delle aziende digitali californiane. Ne rivela bassezze e pochezze, fino a criticare apertamente comportamenti sessisti o non etici. Non sempre lo fa in modo letterario, la scrittura stessa risente di uno stile, paradossalmente, “da social network”.
Ma è nel descrivere l’ambivalenza di certi luoghi di lavoro e nello scendere nei dettagli dell’ambiguo e contraddittorio neonato patto azienda/lavoratori che il libro di Wiener si fa davvero interessante.
È in queste pagine infatti che si scopre quanto San Francisco sia molto più vicina di quanto non si creda e quanto tutti i discorsi sulla “moderna employee experience” rischino di cadere come un castello di carte.
“I loro campus offrivano negozi di caramelle e l’arrampicata su roccia, officine per la riparazione di bici e ambulatori medici, mense gourmet e parrucchieri, nutrizionisti e asili nido. Non offrivano nessun motivo per andare da qualche altra parte. I campus erano raggiungibili con i mezzi pubblici, ma i mezzi pubblici non offrivano il wi-fi. Tutti i giorni feriali delle navette private facevano la spola dai quartieri residenziali”
Anche il fluire del tempo assume un’altra dimensione. Trovandosi in “una corrente ininterrotta di digressione digitale che scorreva in sottofondo.” (…) “Ebbi il presentimento che non avrei mai più lavorato in una startup il cui ufficio dava l’impressione di poter essere smantellato dalla sera alla mattina, o in una succursale dell’industria culturale con tazze del caffè spaiate e finestre piene di spifferi. Non avrei più indossato abiti business casual di raion elasticizzato. Non avrei più visto topi. Mi sarei realizzata raggiungendo un sano equilibrio tra lavoro e vita privata, e avrei lasciato che gli altri si prendessero cura di me, come se avessi fatto qualcosa per meritarmelo.Se questo era il futuro del lavoro, pensai, ci stavo.”
Non mancano le riflessioni sul nascente lavoro ibrido di massa e le contraddizioni dell’autonomia gestionale.
“Malgrado l’opulenza dell’HQ, che si diceva fosse costato dieci milioni di dollari, il vero quartier generale di un’azienda che prediligeva il lavoro da remoto era il cloud. Per garantire a tutti i dipendenti le medesime condizioni a prescindere dalla posizione geografica, la maggior parte dell’attività si svolgeva per iscritto, prevalentemente usando una versione privata della piattaforma open source, come se l’azienda stessa fosse una base di codice. Le persone documentavano in maniera ossessiva il proprio lavoro, le riunioni e i processi decisionali. Tutte le comunicazioni interne e i progetti erano visibili a ciascun membro dell’organizzazione. A causa della natura del prodotto, ogni versione di ogni file veniva conservata. L’intera azienda poteva in pratica essere sottoposta a un processo di ingegneria inversa”
“Non c’era l’obbligo di andare al lavoro, ma per un po’ lo feci comunque. Era un piacere passare il tempo all’HQ, esattamente come sarebbe un piacere ammazzare qualche ora nell’atrio di un albergo di lusso. C’erano distributori automatici con scorte di tastiere, cuffie, cavi e cavetti nuovi, tutti gratuiti: per averli bastava avvicinare il badge aziendale. Gli ascensori non erano mai guasti. Si diceva che un ingegnere avesse vissuto nell’ufficio per un po’, dormendo in un salottino in cima a un container per spedizioni all’interno dell’edificio.”
I colleghi erano “esortati a non dimenticare di portare tutto se stessi in vacanza. Le ferie, che erano illimitate, non si conteggiavano. Non c’erano orari. Metà della forza lavoro operava da remoto, e il nomadismo digitale era considerato ordinario.”
“I miei colleghi lo trattavano tanto come un ufficio quanto come un circolo ricreativo. Le persone gironzolavano a piedi scalzi, facendo giochi di destrezza o suonando la chitarra. Si presentavano in ufficio con un abbigliamento stravagante e ironico: leggings di lycra con stampate emoji di unicorni, magliette con le facce di colleghi, collari da bondage, pellicce in stile Burning Man. Alcuni giocavano ai videogiochi mentre lavoricchiavano, o schiacciavano un pisolino negli «antri dei programmatori» – cabine buie e insonorizzate, progettate per quelli che lavoravano al meglio in condizioni di oscurità”.
“Anche se di tanto in tanto gli altri del mio gruppo prendevano un aereo e venivano all’HQ, era strano ritrovarsi in carne e ossa, e disorientante vedere tutti dal collo in giù. Le nostre relazioni, favorite dal software, non trovavano una corrispondenza immediata nella realtà fisica. Di persona eravamo tutti più impacciati che nelle chat o in video, dove la conversazione era più sciolta.
“Mi piaceva l’intimità particolare del video, dove tutti respiravano, tiravano su col naso, masticavano una gomma, dimenticavano di silenziare il microfono prima di schiarirsi la gola. Mi piacevano gli sfottò, i volti che si bloccavano a metà frase, la sorpresa di vedere un animale che sbucava da sotto una scrivania. Mi piaceva guardare tutti che guardavano se stessi mentre fingevamo di guardarci l’un l’altro, in un atto di sorveglianza infinita. I primi dieci minuti trascorrevano quasi sempre in piccoli aggiustamenti al programma di videoconferenze, e intanto mi familiarizzavo con le case dei miei colleghi, con le librerie organizzate per colori e con le foto di matrimonio, con austeri manifesti tipografici e con oscuri oggetti d’arte. Scoprivo i loro hobby e chi fossero i loro coinquilini. Mi affezionavo ai loro figli e ai loro animali domestici”
Eppure anche le generazioni più giovani sembrano rimpiangere un senso di appartenenza più autentico alla propria organizzazione, dissimulato fra party, gadget e occasioni simboliche.
“Malgrado i molti comfort e l’atmosfera da discoteca, raramente l’ufficio era pieno. Le riunioni si tenevano in videoconferenza, e le persone si collegavano ovunque fossero: su un mezzo di trasporto pubblico, su un lettino in piscina, in un letto sfatto, nel soggiorno con il partner che sonnecchiava sullo sfondo. Un ingegnere partecipava alla sua riunione mattutina da una parete per l’arrampicata, aggrappato a una roccia di plastica e indossando un’imbracatura. Un robot di telepresenza girava per lo spazio”
“Le persone andavano e venivano, secondo orari a piacere. Non sapevo mai in chi mi sarei imbattuta all’HQ, o se avrei lavorato completamente da sola. Su ogni piano erano installati schermi che mostravano mappe di calore ed elenchi di avatar, sui quali era indicato chi si trovava nell’edificio e dove. Le mappe di calore mi sembravano una violazione, ma non sapevo come escludermene. Ogni volta che andavo al bagno sbirciavo i monitor con la coda dell’occhio, aspettando che i miei dati, una sfavillante chiazza arancione” apparissero in prossimità della toilette.
“Invidiavo quei primi dipendenti, le battute tra loro che nessun altro capiva e il meritato senso d’orgoglio che provavano. A volte, leggendo i loro scambi scherzosi o vedendo le foto dei figli vestiti da polpo-gatto per Halloween, o scorrendo i post sui blog personali di ingegneri che decantavano le virtù della collaborazione asincrona e lo Zen dell’open source, pensavo alla mia passata autorità istituzionale, o alla pila di magliette con la scritta I AM DATA DRIVEN che tenevo piegate sotto gli asciugamani, e avvertivo una fitta di rimpianto. Di desiderio. Di solitudine aziendale. Mi struggevo”.
“All’inizio di quelle riunioni effettuavo l’accesso e mi curvavo sul portatile, godendomi il cameratismo e il calore di una squadra. Per un’ora il mio monolocale si riempiva di risate e di chiacchiere, con la conversazione che incespicava quando il programma si bloccava o rallentava. Poi mi alzavo in piedi, mi stiracchiavo, coprivo di nuovo la webcam con il nastro adesivo e aprivo le tende”.
Non mancano i rituali e i feticci da ufficio: “dalla scrivania rialzata libera in mezzo a un gruppo di programmatori, lasciai i miei nuovi biglietti da visita accanto allo schermo: una bandiera piantata nel terreno. Decorai il mio portatile con adesivi del polpo-gatto presi nel negozio aziendale. Divenni cliente abituale della massaggiatrice interna, e mi feci fare un cauto massaggio alla schiena – completamente vestita – la cui decadenza mi lasciò il corpo irrigidito dalla vergogna. Bevevo scotch con i colleghi in una stanza celata dietro gli scaffali di una libreria e progettata per assomigliare a un fumoir ottocentesco: un appendiabiti con giacche di velluto, un mappamondo dove c’erano le scorte di erba e, sopra la mensola del camino, un dipinto a olio del polpo-gatto nelle vesti di Napoleone Bonaparte. Incespicai nelle mie stesse caviglie mentre giocavo nella squadra di calcio della compagnia, facendo la mia parte per aiutare a rispettare la quota rosa di due donne. Usai la palestra dell’ufficio e dopo mi feci la doccia nello spogliatoio, in preda all’ansia, e decisi che non mi sarei mai più spogliata nuda al lavoro. Mi aggiravo orgogliosa nella mia felpa aziendale, col mio nickname stampigliato.”
“Al momento dell’assunzione, la startup open source regalava a tutti i dipendenti un braccialetto contapassi: i lavoratori in forma erano lavoratori felici, e probabilmente più economici da assicurare. Indossai il braccialetto per una settimana, monitorando i passi e calibrando l’apporto calorico, finché non capii che ero sull’orlo di un disturbo alimentare.
Non mancano infine riflessioni sulla corrispondenza fra impegno e amore per il proprio lavoro, la confusione tra uno stato di produttività e uno di reale adesione valoriate.
Quando il suo ex capo le propone di rientrare, lo fa dicendole: “Ho pensato di vedere se amavi ancora quest’idea» scrisse. Amavi, pensai. Ci risiamo con la manipolazione emotiva”
Si interroga anche sul gamification del lavoro e i suoi riflessi nel quotidiano. “Perché sembrava così tabù, chiesi, trattare il lavoro come faceva la maggior parte della gente, come uno scambio di tempo e fatica contro moneta? Perché dovevamo fingere che fosse tutto così divertente?”
Non ultimo”, si fa delle domande sullo a dopo di tutto quel lavoro””, vedendo quanto i suoi colleghi “magnificavano il primato della perseveranza. Ogni volta che denigravano l’idea di un equilibrio tra lavoro e vita privata come una cosa da rammolliti, o antitetica alla determinazione necessaria per raggiungere il successo nel mondo delle startup, mi chiedevo quanti di loro avessero un assistente esecutivo. Un assistente personale. O entrambi.”
“Ancora mi aggrappavo alla convinzione che fosse possibile trovare appagamento nel lavoro, e uno scopo – frutto di più di vent’anni di asserzioni pedagogiche, incoraggiamento genitoriale, privilegi socioeconomici e mitologia generazionale”
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