L’ultima tendenza di LinkedIn è parlare di “quiet quitting“.
Come spiega il sito “The WOM”, “tutto nasce sulla piattaforma più amata dai giovani, TikTok e in particolare con un video postato dall’ingegnere Zaid Khan, 24 anni”, che ricorda ai suoi coetani che il valore di una persona non è definito dal suo lavoro.
Un invito a scegliere una via alternativa alla cultura della competizione, a non ammalarsi per il lavoro, a prendersi cura della propria salute mentale, anche a scapito della carriera. Un abbandono quieto, appunto, forse la premessa o una strada differente da intraprendere rispetto alle Grandi Dimissioni. In sostanza: non lascio il lavoro, non cambio per una mansione meno impegnativa, ma semplicemente mi impegno meno e non mi lascio travolgere dalla sfera professionale.
In passato si sarebbe forse parlato di sciopero bianco, per Wikipedia “una forma di protesta dei lavoratori che consiste nel rifiuto di collaborare realizzato però senza astensione dal lavoro, mediante applicazione rigida e burocratica delle regole e dell’orario di lavoro contrattuale.”.
La scrittrice giapponese Tsumura Kikuco, invece, lo chiama “Un
lavoro perfetto”, ed è quello che per oltre 300 pagine edite da Marsilio fa cercare alla protagonista del suo omonimo libro. Protagonista che passa dal videosorvegliare uno scrittore a ideare copy per confezioni di
cracker, a fare la guardiana in un capanno di un gigantesco e inquietante parco cittadino. L’importante, chiede ogni volta alla selezionatrice dell’agenzia per il lavoro, è che non ci siano responsabilità, che non servano cambi di marcia, che non le richiedano di credere in una qualche mission. Qualcosa, insomma, qualcosa “che sia al limite tra il gioco e l’impiego serio”.
“La questione non riguarda una professione specifica: chiunque può sentirsi così, con la voglia di scappare un lavoro in cui un tempo credeva, di allontanarsi da un percorso quando capisce che non è più quello giusto da seguire”.
Avevo adocchiato questo libro già la scorsa estate, ma non lo avevo preso preferendogli “La fabbrica”, anch’esso di una autrice giapponese. Con quest’opera condivide toni surreali e descrizioni talmente vivide da essere al limite dell’horror. Anche in quel caso si parlava di un “purpose che non c’è” ma lì prendeva una piega kafkiana che lo rendeva a mio avviso un piccolo gioiello di letteratura industriale.
Questo invece proprio non mi è piaciuto, non ho colto ironia e leggerezza che avevo viste citate in tante recensioni italiane. Personalmente ho trovato la storia umana molto triste e perturbante, ma riconosco abbia colto nel segno della sensibilità di molti che, mal volentieri, stanno abbandonando quietamente il proprio lavoro, prima ancora che l’espressione diventasse di moda.
Rispondi