Ho visto After Work. E mi è piaciuto moltissimo.

Di solito esco sempre delusa dalla sala, quando vedo film che parlano di lavoro. Questa volta è stato diverso. Ho visto il nuovo documentario di Erik Gandini, After Work, e mi è piaciuto moltissimo. Ci sono andata in pausa pranzo, e questo è un dettaglio importante di cui vi parlerò alla fine.

Ero partita prevenuta, specie perché la chiave di lettura di tutte le recensioni che avevo letto era legata alla fine del lavoro e quale scopo daremo alle nostre esistenze una volta che non ci sarà più lavoro per tutti, principalmente causa automazione. E invece questa pellicola parla di molto di più.

Racconta le storie di una decina di lavoratori e non lavoratori, provenienti da tutto il mondo.

Si parte con un giardiniere, che scopriamo alla fine ricchissimo ma intento quotidianamente alla cura di bossi, labirinti di siepi, figure sagomate di piante. Questo lo rende felice perché “alla fine del tuo lavoro vedi l’opera finita, tutti ammirano quello che hai fatto; non esiste il non fare niente; non fare niente è solo la morte”. Il lavoro come strumento di senso e appagamento, pur in una vita – lo rivelano le scene finali – piena di agi.

Si continua con un formatore americano, dedito contemporaneamente al busy bragging, al farsi vedere super occupato, e a dare strumenti a figure HR per ricostruire un’etica del lavoro. Racconta che lo scorso anno sono state 578 milioni le ore di ferie a cui hanno rinunciato i lavoratori americani, non perché costretti ma per via del senso di urgenza di lavorare continuamente. Come dice una filosofa intervistata, il retaggio di una concezione calvinista del lavoro e del tempo.

È poi la volta della ministra del lavoro della Corea, dove scopriamo che sono in corso campagne pubblicitarie statali massicce per far lavorare meno i propri cittadini, al grido di “Liberiamoci dalla società del super lavoro” e dove si stanno sperimentando chiusure centralizzate dei PC alle 18. Confesso che mi sembrava una faccenda così incredibile che sono andata a fare anche un po’ di fact checking.

C’è poi un ricercatore della Gallup, che illustra come su 1 miliardo di lavoratori con un lavoro degno, i non coinvolti sul lavoro (non committati, ingaggiati, unengaged in inglese) sono 850 milioni. Qui il loro ultimissimo report, e a proposito di engaged workers, l’Italia è penultima in Europa, con solo il 5%.

Segue una ragazza, che racconta le pratiche di video sorveglianza e controllo di Amazon rispetto ai propri corrieri, sempre negli Stati Uniti (e qui parte un viva la GDPR, viva lo Statuto dei Lavoratori).

C’è poi un blocco in cui parlano della fine del lavoro Chomsky e Harari. Una frase di quest’ultimo mi ha particolarmente colpito: “Molto peggio essere irrilevanti che essere sfruttati”. Non ho ancora compreso del tutto il mio pensiero al riguardo, ma sono certa che è una suggestione che accompagnerà per un bel po’ le mie riflessioni.

Musk si chiede: “dove troveranno uno scopo le persone se non avranno più un lavoro?”, aprendo così la questione dell’universal basic income ma anche la questione che segue: non è detto che avere un lavoro equivalga ad avere uno scopo.

Lo dimostra assai efficamente l’intervista a due impiegati statali del Kuwait, ripresa anche da Internazionale. Anche qui, la storia del “magazzino di dipendenti sotto terra” ha dell’incredibile.

Un ragazzo asiatico soffre di depressione e panico per il troppo lavoro e viene consideratp uno scansafatiche dai genitori, i quali a suoi dire “non hanno alcun concetto di felicità”.

Sempre in tema “non lavoro”, o almeno non salariato, è efficace anche la storia della ricchissima ereditiera italiana, che non riesce a stare con le mani in mano perché “è troppo curiosa” (risatine in sala, di altri due spettatori aggiuntisi nel frattempo).

Il sociologo Ricolfi ricorda quanto il numero di NEET sia proporzionale all’eredità attesa, e questo pone l’Italia in pole position, con un patrimonio medio di 400.000 €, spartito su pochissimi eredi, 1,2 figli per madre. 

Infine, la domanda, posta a tutti: Se tutti i mesi ricevessi uno stipendio senza lavorare cosa faresti?  Nessuno sa rispondere, sorrisi di circostanza.

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Perché mi è piaciuto. L’ho trovato eccezionale nel selezionare storie pazzesche e solo apparentemente estreme, che ci raccontano ognuna un possibile futuro del lavoro. L’automazione c’entra, certo, ma è solo un pezzetto del ragionamento a mio avviso. Ragionamento che deve includere gioco forza il significato che diamo al lavoro e alla vita.

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Come scrivevo all’inizio, il film era programmato in orari a dir poco bizzarri, con un’opzione a pausa pranzo. Fino all’ultimo ho cercato di capire se sarei riuscita a organizzarmi e alla fine ce l’ho fatta. Ho raggiunto il Palazzo del Cinema sotto il sole cocente, completamente galvanizzata da questa “gita fuori programma”.
Una volta in sala, vedo solo due persone, una delle quali si sbraccia per salutarmi.
Un’altra bellissima serendipity, una amica docente con cui cercavo da mesi di fissare un incontro. Ed ecco che usciamo di casa e ci ritroviamo: per caso ma non troppo, visto che entrambe siamo in fissa per questi temi.

Perché penso sia rilevante raccontare questo dietro le quinte in una recensione di un film come questo?

Uno, perché avere la possibilità di organizzare lo spazio, il tempo e il modo di svolgere il proprio lavoro in autonomia e con fiducia credo sia una delle conquiste più belle degli ultimi anni, una di quelle che dà senso ogni giorno a quello che si fa.

Due, perché uscendo di casa (dal nido o dalla grotta, direbbe qualcuno) si possono fare incontri estemporanei preziosi anche per il proprio lavoro, non necessariamente recandosi nei luoghi deputati.

Tre, perché noi due – che siamo un po’ fissate, è vero – non abbiamo smesso un secondo di interrogarci se – nell’assistere alla proiezione – stessimo lavorando o meno, nel prendere appunti e macinare food for thoughts da quello che stavamo vedendo. La mia personalissima risposta è sì, e sono molto felice sia così.

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