
“Pur apprezzando il fatto che il lockdown ci ha insegnato a fare Smart Working, ora è il momento di tornare a lavorare”. Lo ha detto ieri Beppe Sala, nel suo video Facebook quotidiano intitolato “L’Italia è ancora una Repubblica ‘fondata sul lavoro’?”. In tutta risposta, il sindaco di Milano ha ricevuto migliaia di commenti di disapprovazione, oltre a numerosi articoli poco lusinghieri.
Perché quella frase risulta così sbagliata alle nostre orecchie?
Il problema, io credo, sta nell’utilizzo del verbo “tornare”. Il che ci permette di fare alcune riflessioni sul tipo di valore che vogliamo dare al nostro lavoro.
Usare l’espressione “Tornare a lavorare” implica in primis identificare una discontinuità rispetto a quanto fatto precedentemente. Equivale a dire che lo smart working non era lavoro vero, e che è solo ritornando negli uffici che possiamo dirci dei veri professionisti.
Ma “tornare” è anche un verbo di movimento, implica un moto da un luogo (casa) verso un altro luogo (sede di lavoro). Di nuovo, sembra che ci sia valore esclusivamente nel lavoro “in presenza“.
Come dice giustamente Pino Mercuri nel suo “Il futuro del lavoro spiegato a mia figlia”, il lavoro “non è un posto dove si va”, ma è “qualcosa che si fa”. Con lo Smart Working si sposta l’attenzione dalla pura timbratura del cartellino e dalle 8 ore in open space alla reale produttività, rafforzando tra l’altro un rapporto di fiducia tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, dove devono prevalere senso di responsabilità, delega, meccanismi di feedback continuo e di comunicazione costante. Questo non significa che non ci sia valore nella socialità del condividere uno spazio comune, nel fare riunioni, nel prendere un caffè, e che nel prossimo futuro non si debba cominciare a ri-considerare questa esperienza, nel rispetto delle necessarie misure di sicurezza.
Ma la domanda che ci si deve porre a mio avviso è: quali sono le motivazioni reali, quale è il vero valore del tornare in ufficio?
Molto dipende da cosa abbiamo imparato in questo periodo e come possiamo trarne i vantaggi più alti. Tanto più che quello fatto in questi mesi non è stato vero smart working, ma un forzato lavoro da remoto, svolto con sforzi enormi, in condizioni piuttosto precarie, che non possono non essere riconosciuti. E se è vero che bisogna nel lungo periodo evitare “l’effetto grotta” (io preferisco chiamarlo “effetto nido”), è altrettanto vero che dobbiamo disegnare assieme quello che davvero è il valore aggiunto del rientro. E che ciò sperabilmente non si esaurisca nella logica del controllo a vista da parte del proprio superiore.
C’è poi un altro aspetto che mi sta a cuore, che è quello della dimensione di Employer Branding che una metropoli può attivamente promuovere.
Milano ha saputo fare un city branding eccezionale in questi ultimi 5 anni, posizionandosi come “il posto in cui essere” se avevi certe ambizioni professionali. Un’operazione fenomenale di marketing territoriale, che ha reso la città un “polo di attrazione di talenti” che non ha pari in Italia. Con un pubblico basato perlopiù su una classe intellettuale (consulenza, editoria, comunicazione, design, moda) che già lavorava spesso in Smart Working e da altri professionisti (prevalentemente dei servizi) che ne hanno scoperto le potenzialità solo nel 2020, dopo che per anni gli era stato detto che “non si poteva fare”.
Sminuire il lavoro di chi (habitué o parvenu) in questi mesi ha veramente lavorato molto più di prima non mi sembra una grande idea, in particolar modo se quegli stessi lavoratori sono quelli che pagano affitti e case con costi impensabili nel resto del Paese. E che sono gli stessi che si vorrebbero far tornare ad affollare i mezzi di trasporto, i bar, i ristoranti, i negozi del centro.
Ma non si può tornare in ufficio solo per non far chiudere il bar dove si fa la pausa caffè con i colleghi, e non si può considerare la prestazione lavorativa con categorie che potevano andare bene per la fabbrica del Novecento.
Non facciamo fare passi indietro all’Italia e a Milano: anche perché è in questa città che davvero si è potuto respirare, anche grazie allo Smart Working, il futuro del lavoro.
Aggiornamento: la lettera di Sala al Corriere