
Perché tante aziende stanno tornando indietro e chiedendo alle persone di rientrare full time in presenza? Perché lavorare da casa può essere così bello e allo stesso tempo così faticoso? Il futuro del lavoro riguarda solo una nicchia di imprese di grandissime dimensioni? Quanto c’è di vero e quanta fuffa invece nella narrazione sui nuovi modi di lavorare? Di cosa ha bisogno un manager per affrontare tutti questi cambiamenti?
In occasione della rassegna milanese di Bookcity assieme a Pier Luigi Celli e Maria Cristina Bombelli abbiamo commentato l’ultimo libro di David Bevilacqua, Ibridomania, e abbiamo provato a dare qualche risposta.
Partiamo dalla prima domanda. Perché tante aziende stanno tornando indietro e chiedendo alle persone di rientrare full time in presenza?Secondo Celli alla base della spinta al ritorno in ufficio da parte del middle management ci sono varie spinte: il controllo, la necessità di asserire il proprio ruolo all’interno di un perimetro molto ben definito e visibile, il bisogno di reiterare rituali e simboli di potere. Tutti tentativi, ha asserito, di porre dei confini a un mondo del lavoro che però si è fatto molto più poroso in primis per via della tecnologia, e a cui la pandemia ha dato il colpo di grazia in termini di permeabilità.
Ecco quindi che le linee di demarcazione si fanno più labili, e se lavorare da casa – anche solo qualche giorno alla settimana – può avere indubbi vantaggi, porta a galla notevoli sperequazioni e riproduce diseguaglianze. Perché lavorare da casa può essere così bello e allo stesso tempo così faticoso? Una risposta è arrivata da Bevilacqua: si parla molto ibridazione del posto di lavoro, ma la vera ibridazione l’hanno subita le nostre case, che non erano mai state progettate e pensate per accogliere una persona che lavorasse. E se i metri quadrati o i device scarseggiano, anche la motivazione ne risentirà.
Il futuro del lavoro riguarda solo una nicchia di imprese di grandissime dimensioni? Su questo si è interrogata Bombelli, chiedendosi se tutti i nuovi fenomeni legati al futuro del lavoro non siano in realtà appannaggio delle sole grandi imprese strutturate, in un Paese fatto per la stragrande maggioranza da PMI. Personalmente penso che per quanto i primi impatti significativi si stiano vedendo quasi esclusivamente su multinazionali o gruppi di dimensioni ragguardevoli, il cambiamento nel medio periodo riguarderà tutti. Perché non si tratta solo di Smart Working o di flexible workplace o altre amenità anglofone, ma di un netto cambiamento valoriale e di approccio al lavoro, soprattutto generazionale. Chi non si ferma (a pensarci) è perduto.
Da ultimo, quanto c’è di work – washing nella narrativa dei manager e delle organizzazioni in questi ultimi 24 mesi? In altre parole, quanto c’è di vero nei proclami di flessibilità, sostenibilità e benessere a cui assistiamo ogni giorno nel nostro feed di LinkedIn o sfogliando i giornali? Mi occupo di comunicazione del lavoro da venti anni e qualche idea me la sono fatta. Ma non è tanto interessante sparare a zero su alcune iniziative che si commentano da sole. (L’ultima in ordine di tempo è l’ultimatum di Elon Musk ai dipendenti di Twitter). Mi sembra più significativo limitarmi a una constatazione. Per quanti proclami si possano fare, le aziende sono diventate di vetro, chiunque può guardarci dentro. Ricostruire organigrammi, contattare ex dipendenti, leggere recensioni sui datori di lavoro è a portata di qualunque candidato. Trasparenza, autenticità, adesione ai fatti e basso profilo aiutano una buona comunicazione HR.
Ma allora, alla fine, di cosa ha bisogno un manager per affrontare tutti questi cambiamenti?
La risposta inedita arriva da Celli: la poesia aiuta il manager. Gli fa attraversare dimensioni diverse, immaginare accostamenti improbabili, vedere scenari inediti e provare emozioni. Tutte cose che servono, nel futuro del lavoro. Altro che iper specializzazione.
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