Che costi ha per le aziende un collaboratore demotivato?

Sabato e domenica scorsi ho partecipato al Women’s Equality Festival a Lecce, una tre giorni dedicata alla parità di genere.

Ho avuto modo di prendere parte a un panel dedicato ai femminismi di ieri e di oggi e di presentare il mio libro Il futuro del lavoro è femmina, uscito a giugno 2020.

In questo anno e poco più ho avuto il privilegio di confrontarmi con alcune migliaia di persone sulle idee contenute nel testo, grazie alle decine di eventi organizzati allo scopo. Pochi, pochissimi in presenza, per ovvi motivi. Ed è stato bellissimo, a Lecce, poter tirare tardi a discutere con il pubblico, ben oltre l’orario previsto, in un cortile stupendo e in una serata di un inizio ottobre che sembrava luglio.

Racconto tutto questo perché ho sempre un dubbio, quando racconto quello che ho scritto, e dal vivo si è fatto chiaramente più vivo e concreto, e mi ha dato da pensare.

Mi chiedo – e mi chiedono – se i cambiamenti che descrivo (soprattutto in termini di soft skills, di attenzione alla persona, di inversione di rotta rispetto alle gerarchie e ai tempi e luoghi del lavoro, di valorizzazione degli aspetti più umani anche in ambito lavorativo, di necessaria evoluzione della leadership e della formazione) non siano molto al di là da venire, soprattutto in certe zone d’Italia. 

Una ragazza, in Puglia, mi ha detto di ritenersi fortunata se le propongono dei contratti veri. Un’altra signora, quella sera, mi ha parlato di pubblica amministrazione carente nello sviluppo delle persone e disinteressata a ogni forma di innovazione e miglioramento (e non era del Sud). Un neo pensionato del bancario – giovanissimo – mi ha detto di essere felice di aver potuto usufruire di uno scivolo in uscita, perché sentiva di non avere da anni alcuno stimolo, di essere messo da parte e, letteralmente, di ritrovarsi ingrigito da quel lavoro senza significato. Un altro mi ha raccontato di aziende bravissime a raccontarsi come ottimi ambienti di lavoro e rivelarsi poi un inferno una volta entrati.

Tutte queste persone avevano indubitabilmente ragione ad essere sfiduciate, a non credere alla trasformazione che andavo descrivendo. E questioni simili era già emerse in altri appuntamenti in presenza, e pure in domande sulle varie piattaforme in streaming.

Non è un caso che, come racconto spesso, la mia editor scherzando mi disse di voler mettere il mio titolo nella collana di fantascienza, invece che in quella management, “perché queste cose non accadranno mai”. 

Queste persone non mettono in discussione la mia buonafede, né osteggiano il mio entusiasmo nell’anticipare quello che per me sarà il mondo del lavoro che verrà. Ma tutti, invariabilmente, hanno una forte frustrazione, e a tutti – tutti – si illuminano gli occhi a sentir parlare di collaborazione, di ascolto, di attenzione al valore del lavoro e della persona.
Perché a loro, il loro lavoro, piacerebbe pure.

Sono perfettamente consapevole che quasi tutti i trend di cui tratto sono già visibili sono in una piccolissima porzione delle aziende e che la consapevolezza del cambiamento (e gli investimenti per gestirlo al meglio) tocchi una realtà professionale davvero esigua.


Al contempo penso anche che si tratti di una transizione inevitabile, soprattutto per via di una pressione generazionale, e che il lavoro sia destinato a mutare in tempi piuttosto rapidi, complice anche la sterzata importante data dal Covid, con i suoi lasciti di remote working e Great Resignation, per dirne solo un paio.

Però penso anche a un’altra cosa, che a Lecce mi è stata chiarissima proprio perché ho potuto vedere negli occhi le persone e percepire il loro reale interesse nell’approfondire – di sabato sera, precena – questi argomenti.

Quanta energia, quante competenze, quante risorse vengono buttate al vento nelle aziende? Quanti diritti e quante personalità vengono schiacciati? Quanto potenziale e quanta motivazione vanno alle ortiche?  E al di là degli aspetti più umani, che costi ha tutto ciò in termini di (mancata) produttività, fuga del talento (anche cinquantenne) e di (mancata) innovazione? 

Una giovane presente in sala mi ha chiesto se servisse un chief happiness officer. Le ho risposto di no, perché credo che la felicità del dipendente sia responsabilità di ciascuno: dei vertici, dei diversi capi funzione, e anche del singolo individuo. 

Idem per una figura come la mia, io credo, quella che si occupa dell’Employee Experience che – una volta introiettata in azienda – dovrebbe a tendere scomparire perché patrimonio di ciascuno.

Sono convinta intimamente che il cambiamento accadrà, e anche in tempi non lunghissimi: serve l’impegno di ognuno per spingere nella giusta direzione, quella di un futuro del lavoro migliore per tutti, uomini o donne non importa.

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