
Nei precedenti post abbiamo parlato di come l’espressione “futuro del lavoro” non abbia tanto ragione di esistere, in quanto la maggior parte dei fenomeni che comprende è già in realtà qui. Scenari tratteggiati dalle tecnologie esponenziali, dai big data, da nuovi lavori, nuovi modi di lavorare, nuovi lavoratori che possono apparire controversi, e per certi versi spaventosi. Chiudiamo (per ora!) la serie facendoci altre domande, stavolta su quello che potrebbe sembrare l’unica soluzione a una situazione tanto cangiante.
L’unico antidoto alla disoccupazione, dicono le ricerche, è il titolo di studio. Penso sia una considerazione corretta. Ma credo anche che sia giunto il momento di riformularla. L’unico modo per garantire la propria occupabilità (la famosa employability) è continuare a studiare.
- Come si può pensare che è quanto è stato acquisito nei primi 20 anni di scolarità possa bastare per i 50 successivi di vita lavorativa?
- Come cambia la formazione, iniziando a pensarla espressamente per chi è nativodigitale?
- Quali competenze andranno valorizzate maggiormente?
- Premesso che padroneggiare (e imparare di volta in volta) le competenze hard è dato perscontato, senza soft skills quali flessibilità, curiosità, adattabilità non c’è speranza alcuna di mantenersi occupabili nel tempo. Ma come fare a svilupparle?
Ancora, tanti interrogativi e poche certezze, se non che occorre concentrarsi sul presente del lavoro, continuare a informarsi, a confrontarsi, a condividere e a farsi domande. L’obiettivo: costruire un futuro del lavoro migliore per tutti.
#FutureOfWorkIsNow
L’immagine di questo post è tratta dalla copertina di Economist, gennaio 2017.
Rispondi