Michela Murgia – un ricordo

Ho conosciuto per la prima volta Michela Murgia nel 2006. All’epoca lavoravo per Monster.it e frequentavo un master in Comunicazione del lavoro all’università Cattolica.

Aveva inizio in quel periodo la mia smania per i libri che parlavano di lavoro. Anche perché in quegli anni, dopo un prolungato silenzio, cominciava ad affacciarsi una nuova letteratura, non più industriale, ma che ancora non aveva trovato un nome. Una letteratura che per l’appunto non parlava più di operai e di classe, di fabbrica e di fatica fisica, ma che raccontava il mondo dei servizi e – soprattutto – del precariato e di una serie di storture del mercato che proprio in quei primi anni Duemila stavano emergendo.

Cominciai a leggere tantissimo, perché tantissimi erano i libri a disposizione. Spesso erano una delusione, un frusto lamentio fatto di luoghi comuni. A memoria, poche eccezioni: ne feci qualche recensione sul sito di Monster e una rassegna per il corso di sociologia del lavoro tenuto da Ivana Pais al master.

La più grande di queste eccezioni, senza dubbio alcuno, era stata “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia. Un libro che surclassava tutti gli altri nel raccontare il nuovo mondo del lavoro. Lo faceva con una pulizia di pensiero, un’eleganza nello scegliere le parole, un’intelligenza nell’individuare i toni e le esperienze “giuste” da narrare che non credo di aver ritrovato in nessun altro testo dedicato al lavoro contemporaneo.

Ammiravo Michela Murgia, la invidiavo pure. Era riuscita a spiegare esattamente un pezzo importante di quello che stava succedendo, senza ricorrere a nessuna scorciatoia. Non a caso ho omesso il sottotitolo di quel libro, che – pure utile editorialmente – non restituisce affatto la levatura del pensiero espresso in quelle pagine. Pagine che, intendiamoci, non mancavano di essere anche divertenti, spiritose, anche autoironiche, politiche.

Il libro di Michela Murgia per me era il più bello di tutti perché trasudava intelligenza. Niente a che vedere col film che ne venne tratto qualche tempo dopo, dove alla seconda inquadratura capivi già che si trattava di una iper semplificazione stereotipata del lavoro in un call center, di cui non c’è traccia nell’opera originale.

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Ho conosciuto Michela Murgia una seconda volta, dal vivo, nel gennaio del 2009. Eravamo entrambe intervistate, una di seguito all’altra, in una trasmissione televisiva della allora All Music. Io parlavo di recruiting online, lei di precariato.

Io la guardavo come si guarda la compagna di liceo di qualche anno più grande che ce l’ha fatta, come una AUTRICE con tutte le lettere maiuscole, una che era riuscita a dire tutto quello che si doveva dire di quel tema in quel momento storico. Il tema, era – perdipiù – il mio tema, ma a differenza sua non sarei mai stata capace di tanta capacità analitica, arguzia, stile letterario. La guardavo palesemente ammirata.

Mi sono chiesta, allora e successivamente, chissà se e come mi guardava lei, dopo che ci eravamo velocemente presentate dietro le quinte. Ho sempre avuto il dubbio che le sarebbe stato facilissimo etichettarmi come una biondina che parlava di lavoro digitale con toni un po’ da pubblicità, mentre lei si occupava di questioni serie, di alta letteratura.

Chissà se già all’epoca pensava che “i nemici sono altri”, e che farsi la guerra tra donne era fuori luogo e intrinsecamente sbagliato. Alcune email che ci siamo scambiate mesi dopo mi inducono a pensare di sì.

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Ho scritto queste righe quest’estate, a poche ore dalla morte di Michela Murgia. Per settimane le ho poi lasciate lì, per non cadere nel narcisismo di chi parla anche di sé quando viene a mancare una grande personalità, per pudore e per rispetto della morte stessa. Alla fine ho pensato che il mondo deve sapere quanto la sua opera di esordio sia stato il capostipite di una nuova letteratura sul lavoro e di quanto la sua fosse una figura fuori dall’ordinario. Glielo dovevo, pur attraverso un contributo piccolo come questo.

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