No work team, ma anche “non ti disunire”

Per tanti, la giornata di domani segna il vero e proprio rientro al lavoro. Perché magari sì, da qualche tempo si è ripreso, ma il “ne parliamo a settembre” nelle prossime ore incomberà con una concretezza non più evitabile.

Per tanti, sarà una ventata di energia, una ripresa delle abitudini, un ritorno a un rassicurante tran tran.

Per tanti sarà invece fonte di tristezza e frustrazione, non solo perché le vacanze sono finite ma soprattutto perché si è arrivati a odiare l’idea di riprendere la propria vita quotidiana professionale.

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In questi ultimi mesi ho letto vari libri “contro” il lavoro: Bullshit jobs, Il lavoro non ti ama, La fine dell‘incantesimo, Le Grandi Dimissioni. Non ultimi, anzi assai precedenti, Elogio dell’ozio di Bertrand Russell e La condizione operaia di Simone Weil.

Concordo con Simone Cerlini quando dice che “le contemporanee analisi del lavoro ne considerano solo un aspetto, appiattendo le diverse esperienze che ne facciamo, alla fine, al modello del lavoro ripetitivo e procedurale che sembra essere esso stesso privo di senso. Si esclude una evidenza e cioè che non esiste il lavoro, ma i lavori, che esistono forme attraverso le quali contribuiamo al bene comune molto diverse tra loro e tra loro irriducibili e converrebbe farne anche oggi una fenomenologia”.

Il che non significa affatto non riconoscere la crisi di senso che sta attraversando il lavoro e la necessità impellente per individui e organizzazioni di trovare ragioni più profonde per investire così tanto (a volta persino la vita, più spesso – fortunatamente – “solo” testa-cuore-stomaco, oltre che parecchio tempo ogni giorno) nella sfera professionale.

Piuttosto, proprio per rispetto delle persone che lavorano, implica pensare su più dimensioni, anche contraddittorie, che restituiscono la complessità del valore che ciascuno dà al suo “io professionale”.

Se ci sentiamo tirati da tutte le parti, costretti a scegliere una quotidianità che non ci piace, è sia perché non siamo solo il nostro lavoro e sia perché – al contempo – tendiamo a considerare il lavoro come “altro da noi”, respingendolo e rigettandolo anche per via di una nascente retorica che se da un lato ci rinfranca, dall’altro ci sta frustrando ancora di più. Perché i più di lavorare non possono fare a meno, e alcuni (i meno, purtroppo) si divertono pure a farlo.

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“Non ti disunire Fabio”, raccomanda al protagonista del film di Paolo Sorrentino “La mano di Dio” il suo mentore.

“E mantieni l’unità” recita un verso della canzone “Non trattare” di Vinicio Capossela.

Inviti a restare interi, integri, completi, a non farsi spezzare o frantumare, quando appunto ci si sente tirati da tutte le parti.

Difficilissimo mantenere l’unità nel mondo del lavoro di oggi, che continuamente ci pone davanti a dei bivi: connessione/disconnessione, casa/ufficio, realizzazione/sacrificio, libertà/insubordinazione, privato/pubblico, ribalta/retroscena.

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In ferie ho provato a mantenere l’unità, staccando completamente: zero mail controllate, niente rimuginii, pochissimo LinkedIn, letture “serie” selezionate.

Non ho pensato praticamente a niente di professionale per intere settimane, ho dormito un sacco, mi sono divertita con le persone a me più care. In agosto ho fatto parte del “no work team”, ed è stato bellissimo.

L’ho fatto senza alcun rancore o recriminazione, e so di essere molto privilegiata in questo perché i rimanenti 11 mesi faccio qualcosa che mi appassiona veramente. Ma da esso mi sono staccata con intenzionalità, perché ritenevo mi avrebbe fatto bene.

Sono tornata più riposata e carica che mai. E quando in questi primi giorni di rientro mi è capitato di ascoltare una call e nel frattempo rispondere a un’email ho capito che durante le ferie avevo raggiunto una specifica unità, estremamente produttiva e sana, e che non dovevo perdere quella consapevolezza di coesione e unitarietà.

Ovviamente non si tratta della stessa unità che si può mantenere mentre si è alle prese con scadenze e progetti, ma sono convinta che ci sia un’unità, personalissima, a cui ciascuno più tendere anche tutto il resto dell’anno.

Che può anche voler dire fare tantissime cose, ma non per questo rimanerne sopraffatti perché – se non un equilibrio – si è trovato un baricentro che ci fa stare bene. È il mio buon proposito per quest’anno.

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