Sottolineature – Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: fine di un incantesimo

Negli ultimi mesi sto leggendo tantissimi libri e testimonianze a vario titolo sulla crisi di senso del lavoro.

Persone che, soprattutto a seguito della pandemia, hanno rivisto le proprie priorità e si sono chieste che valore dare al proprio tempo e che contributo stanno dando (o meno) attraverso il proprio impiego quotidiano.

Una disaffezione diversa da quella che già imperava pre-Covid, perché più condivisa esplicitamente e per ciò stesso meno stigmatizzata. Lasciare un posto di lavoro non soddisfacente dal punto di vista valoriale, anche in assenza di una alternativa analoga sul piano materiale, non è più visto come un atto folle, ma come la logica conseguenza di una rinnovata consapevolezza.

A interrogarsi sulle ragioni di tale trasformazione sono Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel loro “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso. La fine dell’incantesimo”, oggetto della rubrica di oggi “Sottolineature”.

Inizio col dire che mi sono piaciute molto le loro riflessioni in merito allo sconfinamento del lavoro in spazi e tempi tradizionalmente “sacri”.

“Se oggi c’è così tanta stanchezza in giro è perché molte persone sanno di aver dato tutto – in primis gli spazi domestici – in pasto al lavoro, e di non avere più un luogo né un tempo per rigenerarsi”.

La vita non è in grado di tenere i propri contorni abbastanza a lungo e così tutto, in primis il lavoro, finisce con il perdere di senso”.

“Un burnout di massa, insomma, che pone tutti di fronte a un bivio: continuare a lavorare come se niente fosse, lasciandosi masticare a oltranza, o ripensare il ruolo, lo spazio e il senso del lavoro nelle nostre vite, senza fretta, trasformandolo in uno slancio capace di creare un agire comune che dia davvero dignità alla vita”.

“La vita, per un numero crescente di persone, occupa gli interstizi tra una sessione lavorativa e l’altra. E il valore dell’individuo passa molto più che altrove dal monte ore che è capace di sobbarcarsi e dal livello di stanchezza che riesce a sostenere.”

Mi ha meno convinto la ricostruzione – almeno quella più recente – di come il capitalismo abbia fatto del lavoro uno strumento legato alla soddisfazione personale e alla liberazione. Usando le loro parole: “Perché abbiamo voluto coprire la natura intrinsecamente forzata del lavoro chiamandola invece realizzazione?“.

Se con l’industrializzazione è stata indubbia – ed esplicitata – la volontà
di trasformare l’orientamento umano al lavoro, mi sembra che ci siano alcune
dimensioni che meritano di essere indagate maggiormente
. Penso infatti
che non è detto che un lavoro non possa dare piacere, e che non possa essere
fonte di gratificazione. Penso anche che ci siano delle funzioni aziendali che
hanno come responsabilità diretta quella di porre le basi per un lavoro dignitoso,
sicuro e – anche – gradevole. Responsabilità che, ben inteso, è anche di chi gestisce
un gruppo e non ultimo, anche del singolo individuo – che naturalmente può
scegliere anche di defezionare.

Difatti, se c’è qualcosa di sicuro è che “Oggi non possiamo chiedere al
lavoro di offrire tutto il senso della vita
. Non possiamo pretendere che
definisca appieno la nostra identità, perché siamo complessi, mutevoli e
abbiamo bisogno di strumenti molteplici per esprimere ciò che siamo”.

Mi piace quindi la loro conclusione: “Paradossalmente, il nostro è un invito
a mettere in crisi il lavoro proprio per amore di tutto quello che di buono il
concetto di lavoro può rappresentare. A domandarti, con tutta la
spietatezza e lucidità di cui disponi: «Ma chi me lo fa fare?».”

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