Sottolineature – Bullshit jobs

Ho recuperato con grande ritardo Bullshit Jobs, un saggio che qualche anno fa fece molto rumore. A differenza della maggioranza dei libri di lavoro, fece breccia anche sul grande pubblico, creando un forte dibattito online.

Pur presentando elementi notevoli come il basic universal income o la settimana cortissima (15 ore), è sulla tesi principale che si è sviluppata la maggior parte della discussione. Ovvero che le persone facciano lavori senza senso, e che siano tendenzialmente infelici per questo.

Ora, bisogna intendersi su cosa si intenda per lavoro senza senso. Secondo l’autore David Graeber, si tratta di una mansione che viene svolta principalmente per soddisfare logiche burocratiche o per creare l’illusione che qualcosa di utile venga fatto. In altre parole, il capitalismo trarrebbe vantaggio dall’occupare individui in compiti inutili, se non dannosi, in attività di sorveglianza di altri lavoratori, in processi auto referenziali, in progetti privi di scopo.

Queste diverse tipologie di bullshit jobs (tradotti a volte in lavori del cavolo o lavori di m) creano ovviamente frustrazione tra chi li fa, anche perché – sostiene l’antropologo – fanno girare i pollici per la maggior parte del tempo.

Sono personalmente rimasta stranita per tutte le 350 pagine dell’edizione italiana del libro. Per quanto esistano senz’altro delle dimensioni lavorative a forte contenuto burocratico, non solo nella pubblica amministrazione, non mi sono per niente ritrovata né negli assunti teorici né nelle conclusioni a cui arriva l’autore.

Che le persone siano demotivate è un fatto. Lo erano nel 2014 (quando venne concepito il primo nucleo concettuale di bullshit jobs), lo erano nel 2018 (data di prima pubblicazione dell’opera), lo sono senza dubbio ancora di più oggi.

Contesto dunque la premessa, ovvero che il capitalismo disegni e auspichi questa demotivazione, che crei ruoli professionali in maniera illogica, che paghi della forza lavoro per stare sui social network la gran parte del tempo.

D’altro canto, occorre indagare sulle origini di questo mancato engagement, che effettivamente esiste ma poggia a mio parere su basi molto più micro.

Esiste sì il lavoro senza senso ed è tale perché

– non viene inquadrato nella cornice di senso più generale di quello che fa l’azienda. Qui una buona parte della responsabilità risiede nel management, spesso incapace o restio a comunicare la “big picture” di cui quella mansione rappresenta un contributo. Ovviamente , possono esserci aziende e mestieri con scopi più o meno interessanti.

– è “in concorrenza” con altri tipi di senso, tendenzialmente molto più pregni di significato di una mera occupazione. Ovvero l’identità personale, le relazioni, la famiglia, il “mondo fuori”

– è un lavoro a basso contenuto cognitivo, vuoi perché ad alta ripetitività spesso ingabbiata in una forte burocrazia, vuoi perché soggetto ad automazione, in cui l’apporto del singolo è poco influente.

Paradossalmente alcune professioni più manuali e faticose, dall’idraulico a chi ricopre di asfalto le strade con questo caldo infernale possono essere al contempo sfiancanti ma sicuramente non prive di senso.

La sua intuizione, del 2014, è più che mai vera oggi ed è venuta meno invece l’impossibilità di parlarne:

“L’argomento del lavoro è circondato di tabù. Che la maggior parte della gente non ami il proprio lavoro e sia contenta di trovare scuse per non andarci è un fatto che non si può assolutamente confessare in televisione, di sicuro non nei telegiornali. È possibile solo alludervi ogni tanto in qualche documentario o negli spettacoli comici.” (…) “Nessuno sentirsi libero di dire quello de pensa davvero su questioni del genere, quantomeno in pubblico”

Grazie anche ai social, alla sensibilità delle nuove generazioni e al generale reset delle aspettative delle persone, tutto questo non è più vero.

David Graeber è stato uno studioso e attivista molto dirompente, dallo stile dissacrante. È purtroppo venuto a mancare nel 2020, in Italia tra l’altro. Per quanto non mi ritrovi nelle sue tesi sui bullshit jobs, sarei davvero curiosa di conoscere la sua opinione sul futuro del lavoro dopo la pandemia, visto che così tante cose sono cambiate.

Per questo, io credo, ciascuno ha il diritto dovere di non fare e non far fare un bullshit job.

Lascia un commento

Blog su WordPress.com.

Su ↑