Breve storia divertente del mio primo colloquio di lavoro

L’altro giorno stavo sistemando il garage della casa del mio paese di origine, quando tra un quaderno delle elementari e la lettera di un fidanzatino del liceo trovo questo biglietto:

Correva l’anno 2003 (20 anni fa esatti fra pochi mesi), mi sono laureata a marzo e fra i vari CV mandati c’è quello a jobpilot, sito di recruiting online, che cerca una persona per i contenuti, le pubbliche relazioni, l’ufficio stampa.

Il sito è anche una testata giornalistica e io sogno da sempre di lavorare in questo ambito. Si occupa ovviamente di lavoro, tema di cui non so praticamente nulla. Mi sento forte nell’area contenuti e ufficio stampa, ho già una discreta esperienza nonostante l’età. Vacillo invece sulla pubbliche relazioni; sebbene abbia conseguito da poco un titolo in Scienze della Comunicazione non so bene di cosa si tratti.

Rispondo quindi con entusiasmo (e un po’ di timore) alla chiamata di Manuela Prestipino, la direttrice delle risorse umane, che mi invita a un colloquio conoscitivo il 13 Maggio alle 10.30, in corso di Porta Romana 68.

Sono agitata, perché è uno dei miei primissimi colloqui veri dopo aver concluso gli studi. So anche che dal loro esito dipenderà il mio andare a vivere a Milano o meno, altro mio sogno di ragazzina.

Nel foglietto si intravede l’emozione negli appunti presi al telefono mentre la dottoressa Prestipino mi fornisce i dettagli logistici per andarla a trovare e mi illustra meglio il ruolo per il quale mi sono candidata.

Nella parte sottostante del foglietto si legge “e chair”, un suono che non riesco a intelligere. La mia interlocutrice lo ripete spessissimo nel corso della chiacchierata telefonica e mi riprometto di cercarlo online. Se lo dice così tante volte, penso, sarà cruciale per fare questo lavoro. Non trovo nulla, avrò capito male.

Qualche giorno dopo mi siedo al suo cospetto, e ha inizio una conversazione piacevolissima sulle mie passioni, le mie precedenti esperienze lavorative, quello che sarei potenzialmente andata a fare lì con loro. Ed ecco che torna quel suono indistinto: “e chair”, “e chair”, e davvero non riesco a ricollegarlo a nessun vocabolo inglese.

All’improvviso, non so quando, non ridete troppo: l’epifania. Non stava parlando di una qualche sedia elettronica, ma di HR, da me arbitrariamente traslitterato “eich ar”. Mi stava dicendo che mi sarei occupata di risorse umane, di consigli di orientamento, di norme giuslavoristiche, di trend occupazionali, di leadership.

Di nuovo, vi prego, non ridete troppo: al mio primo colloquio ho perfettamente inteso tutto, tranne la parola chiave che mi avrebbe accompagnata per i venti anni successivi. A mia parziale discolpa: venivo da università fieramente bolognese, dove gli anglicismi non si vedevano neanche col binocolo.

Ma mi diverte, commuove e intenerisce ripensarmi sul muretto della metropolitana di Crocetta, dove con un Nokia 3310 ho chiamato il mio compagno per dirgli che era andata benissimo e che sarebbero seguiti altri colloqui. Nonostante non avessi compreso la parola centrale al cuore del discorso.

Mi vergogno di questo trascorso? Un pochino. Ma è più forte la gioia nel ripensare a quegli anni in jobpilot, un luogo di lavoro fantastico dove ho avuto l’imprinting per la mia carriera successiva, nell’HR appunto, dove ho imparato tanta tecnicalità, innovazione ed etica.

A distanza di 20 anni, grazie a chi ha creduto in me, in particolare Cipriano Moneta, ma anche tutto il team di lavoro con cui tuttora mi sento, nonostante non avessi capito la parola HR.

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