
A Milano è stato un weekend piovoso e l’ho passato a leggere l’ultimo numero dell’Economist, che dedicava copertina e approfondimento centrale al futuro del lavoro.
La prima rappresentava una giostra di gaudenti lavoratori, con sedie da ufficio al posto di seggiolini volanti, letteralmente al settimo cielo (“riding high”). Mi ha incuriosita, e a dirla tutta, insospettita, se non addirittura indispettita. Si parla di futuro del lavoro, e si dice che va tutto a gonfie vele (altra traduzione per “riding high”): in che senso?
Dizionario alla mano, mi sono messa a leggere l’editoriale (che si trova con il report completo, dietro abbonamento, anche online) che raccoglie un punto di vista inedito sul tema. Proverò a riassumerlo qui.
Fin dalle prime righe si scoprono le carte: può sembrare prematuro predire un mondo del lavoro fantastico a così poco tempo dalla catastrofe occupazionale seguita alla pandemia. Eppure, si legge, ci sono dei segnali che fanno ben sperare.
Uno è che tanto la politica quanto le istituzioni economiche si sono dimostrate più vicine che mai ai problemi dei lavoratori, ultimamente. Si pensi alle tante misure di welfare adottate pressoché ovunque, al rialzo dei salari (auspicato anche dal capo di JP Morgan) e al fatto che le banche centrali per una volta appaiono preoccupate anche delle politiche del lavoro e non solo dell’inflazione.
Un altro è che sembra essere tramontata la tecnofobia, che dominava la narrazione pre Covid: gli ultimi tempi hanno dimostrato che la tecnologia è amica del lavoro. I Paesi con più alta robotizzazione sono anche quelli dove vige minore disoccupazione. Inoltre gli investimenti in tecnologia hanno dimostrato già nel breve periodo di poter essere fattori importanti di maggiore produttività (e sperabilmente di stipendi più alti), nonché di maggiore soddisfazione da parte degli home workers – per quanto forzati.
Questi segnali, dice l’Economist, vanno però colti. Una prima urgenza è quella di ridefinire i diritti dei lavoratori nell’era della flessibilità e dei servizi, ampliando l’accesso da parte di tutti alle opportunità di formazione e di riqualificazione, così che chiunque possa potenzialmente svolgere mestieri di alto profilo.
L’editoriale si chiude con un paragrafo intitolato “The wonderful world of work”, in cui si dice che il futuro del lavoro non è mai stato così radioso – e che è ora di salire a bordo e mettersi in viaggio.
Io sono una persona ottimista, una entusiasta, tendo a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Sono fermamente convinta che questa pandemia lascerà una legacy positiva se non sul mondo del lavoro, sicuramente sui modi di lavorare.
Ma credo capirete le mie perplessità rispetto a tutto questo ottimismo a fronte di quasi 1 milione di posti di lavoro persi in Italia nell’ultimo anno (con le nuove classificazioni Istat, si dirà, ma anche con il persistente blocco dei licenziamenti, aggiungo io).
Ho però insistito con la lettura, andando oltre l’editoriale e studiandomi bene tutto il report.
Se ho fatto bene o male, ne parlerò in un prossimo post.
Salve Silvia,
Condivido quanto detto in quanto è un aspetto che sto riscontrando in più canali.
Questo avvicinamento e maggiore propensione al venirsi incontro è sicuramente una nuova dimensione da mantenere negli anni a venire.
Grazie
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