Sottolineature – Alzarsi all’alba

Da quando ho aperto la rubrica Sottolineature sul mio sito, raccolgo passaggi che mi aiutano a nominare ciò che viviamo nel lavoro e attorno al lavoro. Leggendo il suo ultimo libro, Alzarsi all’alba, ho pensato che le mie riflessioni si rispecchiano spesso in quelle di Mario Calabresi. Ci incontriamo oramai da anni su parole come tempo, errori, cura, confini tra vita e professione.

Il primo punto di contatto è sulla fatica. Non necessariamente solo come sofferenza, ma come determinazione e costanza, un antidoto in un’epoca che promette scorciatoie. È il cuore del suo nuovo testo che riporta al centro gesti quotidiani, tenacia, senso del dovere e di appartenenza.

Anche a me pare una parola “fuori moda” ma che può rivelarsi utile per dare direzione ai nostri percorsi professionali e personali. Non penso sia un caso se “fatica”, in alcuni dialetti, equivalga proprio a “lavoro”. È un legame antico che racconta come in primis lo sforzo fisico, ma anche l’impegno, la costanza e la determinazione siano sempre stati percepiti come parte integrante dell’agire professionale.

Il secondo punto di contatto è il tempo. Ho scritto spesso di come, negli ultimi anni, la divisione fra vita e lavoro si sia sgretolata, confondendo piani e priorità. La sua ricerca ne Il tempo del bosco invita a rallentare per capire, a rimettere al centro ciò che conta: un invito che risuona con la checklist finale di Basta lavorare così, sull’ibridazione degli spazi e sulla necessità di ritrovare confini permeabili ma sani e consapevoli.

Terzo: l’errore. Se la performance continua schiaccia, l’errore diventa un tabù. La serie podcast Sull’errore prova a restituirgli dignità e funzione, spostandolo da stigma a leva di apprendimento. Per me, un invito a considerare la vulnerabilità come competenza da coltivare, anche per potersi permettere di sbagliare e di innovare.

E poi c’è la cura. Le sue storie riportano l’attenzione su ciò che non “scegliamo” ma che ci plasma—l’assistere, il prendersi carico, l’assumersi la responsabilità degli altri. È un modo concreto di intendere il lavoro come relazione e servizio, non solo come prestazione.

Chissà se prima o poi riusciremo a conoscerci, a incontrarci, magari per un caffè e una conversazione sul lavoro che cambia: fatica buona, tempo giusto, errori fecondi, cura delle persone. E anche per dirgli che invece sul suo libro Il giorno dopo, avrei avuto qualcosa da ridire 🙂
Mario, se mi leggi, sono qui!

Nel frattempo, qui sotto raccolgo alcune Sottolineature che mi hanno colpita da Alzarsi all’alba e che spiegano, meglio di tante analisi, perché mi sento in dialogo con lui. E se volete esplorare altre tracce, la mia rubrica è sempre qui: https://silviazanella.com/saggi-lavoro/sottolineature/.


Alzarsi all’alba – Sottolineature

Non so perché avessi iniziato a dire tutte quelle cose, so però che ero rimasto colpito dalla domanda di una ragazza, a metà dell’incontro. Mi aveva chiesto come fosse possibile conciliare il lavoro con la vita, come difendere i propri spazi. È una domanda che sento sempre più spesso. Io le avevo risposto che non lo sapevo perché per me le due cose sono sempre state talmente intrecciate da non riuscire a distinguerle, perché ho avuto la fortuna di fare spesso ciò che mi piace, ma che anche nelle parti più noiose, ripetitive e a volte odiose del mio lavoro ho sempre cercato di metterci passione per renderle più sopportabili. Alla fine le avevo augurato di trovare un lavoro che le desse soddisfa-zione, da cui non si dovesse difendere.
Da quel giorno chiudo ogni incontro con i ragazzi con l’augurio di fare fatica, convinto che la fatica sia l’antidoto a un tempo in cui tutto è frammentato, in cui spesso è difficile trovare un senso e una direzione.
Allora, sono convinto che la fatica, intesa non come sofferenza – di quella ne abbiamo già troppa -, ma come determinazione, passione, costanza, sia un’ancora di salvezza. (p. 47)

È vero che molte cose sono cambiate, penso ai colloqui di lavoro durante i quali capita spesso che a fare le domande sia chi deve essere assunto (una cosa che ho sperimentato più volte), per sapere quanti giorni ci siano di smart working, quali siano esattamente gli orari, quale la prospettiva di carriera possibile. Conosco l’irritazione di molti datori di lavoro, infastiditi dall’idea che i diritti vengano prima dei doveri, ma io ho capito che la percentuale di persone capaci e incapaci è sempre la stessa. Che i giovani che fanno quelle domande hanno una scala di priorità e valori diversa da quella dei propri nonni (non dimentichiamoci, però, che ad averli educati a vedere il mondo in modo diverso sono stati i loro genitori, una generazione di padri e madri che ha messo il benessere dei figli al primo posto rispetto ai doveri e alle fatiche), ma questo non significa che poi non siano persone competenti e appassionate. (p.50)

Quello di stare accanto a un parente malato non è un ruolo che scegli, te lo impone la vita e non sai mai quanto potrà durare.
Non sei un medico, un infermiere, un badante, un assistente, una persona che segue una vocazione, che sceglie un lavoro, che la sera quando ha finito torna a casa, chiude la porta e si dedica alla propria, di vita, che può partire per il fine settimana, per le vacanze e ogni mattina può decidere di smettere e cambiare.
No, se hai un figlio che nasce malato o che ha un incidente, oppure hai un genitore, un marito, una moglie che si ammalano, hai solo due strade: avere il coraggio di caricarti quella fatica, oppure scegliere di sottrarti, far sì che del problema se ne occupino dei professionisti, delle strutture specializzate. (p.144)


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