
Mentre leggevo “Il canto dei telai. L’avventura di Lanerossi” mi sono chiesta che sensazione devono provare i newyorkesi, i romani, i veneziani, o persino i milanesi quando un’opera parla della loro città.
Rivedere le singole strade, riconoscere i palazzi, sapere esattamente dove sono le orchidee descritte, i busti dei personaggi citati, i villini nei quartieri, le gradinate delle chiese.
A me ovviamente non era mai successo, perché provengo da un piccolo paese dell’Alto Vicentino, Schio, ignoto ai più, che aveva però una storia da raccontare.
Quella di Alessandro Rossi, imprenditore di metà Ottocento che – ereditata la Lanerossi dal padre Francesco – non solo la trasforma nel primo polo laniero italiano ma introduce innovazioni impensabili per l’epoca, dentro e fuori la fabbrica.
Il romanzo di Livio Galla, edito da Mondadori, ne parla tangenzialmente, essendo più focalizzato su segreti di famiglie e intrecci d’amore. Ma tra le righe emerge l’utopia che ha dato vita di fatto alla seconda rivoluzione industriale in Italia nella seconda metà del diciannovesimo secolo.
Rivoluzione che coniugava progresso con benessere degli operai, pragmatismo con senso estetico, visione imprenditoriale con politica risorgimentale.
Sono legata, è il caso di dirlo, a doppio filo con la Lanerossi. Rappresenta il punto di vista più alto e prestigioso della cultura del lavoro in cui sono nata (e mi chiedo sempre, anche al termine di questo libro, se non sia questo alla fine il motivo recondito per cui mi sono trovata a occuparmi di certi temi nella vita). Dall’altro ne ho un ricordo amaro, con mezza famiglia che ci ha lavorato in condizioni ben diverse da quelle auspicate da Alessandro, fino alla chiusura dello stabilimento nei primi anni Duemila. Ne ho scritto anche qui, parlando della coperta di mia nonna.
In questa rubrica “Sottolineature” mi voglio concentrare solo su due passaggi del testo.
Il primo è l’episodio con cui si apre il libro, e di cui non avevo idea: quando il giovane erede testimonia in tribunale a favore di un operaio che ha ucciso il proprio caporeparto, addossando la colpa “alla realtà oggettiva, inconfutabile, quotidiana delle nostre fabbriche”, con lavoratori “troppo abbandonati a se stessi, alla loro povertà e alla loro ignoranza”. Conclude il suo j’accuse dicendo: “Siamo noi, i padroni, i responsabili della loro vita morale; noi dobbiamo educarli; farne uomini e lavoratori civili. Se non ci adoperiamo in tal senso siamo corresponsabili di azioni sconsiderate come quelle che si giudicano oggi in quest’aula”. La difesa della classe operaia gli causa l’esilio: il padre lo manda in Nord Europa, Inghilterra e Francia per non averlo fra i piedi e fargli passare certi ideali dalla testa.
Ma sono propri quei mesi lontani dalle Piccole Dolomiti che gli fanno scoprire l’elettricità, l’acciaio, il socialismo, l’arte, nuovi concetti di architettura urbana e industriale. Tutte innovazioni che, alla morte del padre, fanno della Lanerossi la capofila delle fabbriche del Paese.
«Ho deciso di intervistare tutti gli operai del nostro lanificio, esattamente come feci durante il viaggio in Inghilterra, all’insaputa di mio padre.» (…)
«Voglio sapere tutto di loro. Voglio scoprire come vivono, cosa fanno nel tempo libero, se hanno famiglia, cosa vorrebbero dalla vita, se il salario è sufficiente per i loro bisogni primari. Insomma, voglio conoscerli a fondo per capire come migliorare la loro esistenza. Un operaio felice è un operaio che lavora meglio.»
«Lo sai cosa si dice in giro? Che gli operai di Schio sembrano diventati più alti da quando lavorano con Rossi. Hanno buoni salari, vestono in modo decoroso, vivono in abitazioni più che dignitose con condizioni igieniche elevate e un livello culturale che si sta progressivamente alzando.»
E qui veniamo alla seconda sottolineatura, che mi ha spiazzato per la contemporaneità e la ricorsività del dilemma dell’innovazione e delle paure e ambivalenze che porta con sé. L’episodio, un dialogo fra Rossi e le sue maestranze, vale la pena di essere riportato per intero.
«Sostituiremo gradualmente anche i telai manuali in legno con telai meccanici in acciaio e introdurremo presto delle macchine movimentate del tutto a vapore. Conoscerete tecnici e operai inglesi, belgi e francesi che ci spiegheranno il funzionamento di questi macchinari, che loro usano da anni.»
«Perdonatemi, signor Rossi, ma qui vedo solo vantaggi per voi padroni. Se le macchine che volete introdurre sono meccaniche e non più manuali, noi cosa ci stiamo a fare? Quale sarà il nostro lavoro? Le guardiamo muoversi da sole e ci prepariamo a rimanere a casa?»
«Sandrin, non agitatevi! Vi ringrazio della domanda che ha anticipato le spiegazioni che vi devo. Il passaggio alle nuove macchine impiegherà degli anni e sarà lento e graduale. Non tutte le lavorazioni potranno essere meccanizzate, per cui parte del lanificio continuerà a operare in manuale. Certamente non avremo sempre bisogno delle stesse maestranze di un tempo, ma anche voi invecchierete e andrete nel frattempo a riposo. Assumeremo meno personale e lo istruiremo da subito con i nuovi metodi meccanici.»
«Vuol dire che nessuno di noi perderà il lavoro?» chiese un’operaia poco distante da Sandrin.
«Secondo le mie previsioni il lavoro aumenterà notevolmente e questa fabbrica non sarà più sufficiente a soddisfare la pro-duzione, quindi ne apriremo altre in zona. Nel mio piano non sono previsti esuberi di personale: in parole povere significa che per il momento nessuno perderà il lavoro, al massimo verrà trasferito nei nuovi opifici. Non posso garantirvi che fra qualche anno il progresso non giungerà a completare l’automazione di tutta la produzione e, se così fosse, certo, non potremmo mantenere tutti in servizio. Ma questo è il progresso, è il futuro e non possiamo opporci. Non odiate queste macchine, ma imparate ad amarle. Saranno loro a garantirvi la vita nei prossimi anni.»
Varrà anche per l’intelligenza artificiale? Dobbiamo imparare a conoscerla e amarla perché non potremo fare altrimenti?



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