
“Qui ero stato subito accettato e, a parte lavorare, non mi era stato chiesto nulla. Ma quel che per me era assolutamente nuovo era la sensazione di far parte di un gruppo, di essere tra i miei compagni di lavoro; non tra semplici colleghi, che è cosa ben diversa, ma compagni, ossia, sgravando la parola di tutto il suo peso politico – ammesso che ne abbia ancora, cosa di cui dubito – persone con cui condividevo sudore, fatica, rischi e soddisfazioni, ma soprattutto persone di cui lassù, al di là di tutto, potevo fidarmi. E loro di me“.
Così Vitaliano Trevisan descriveva il lavoro di lattoniere, tra tutti, il più bello che gli era capitato di fare. Lo faceva nel suo libro Works, un’autobiografia professionale di 650 pagine in cui raccontava le sue alterne vicende lavorative, prima di passare a fare l’autore, l’attore, lo sceneggiatore.
Crescere in Veneto quando veniva definita “la locomotiva d’Italia”, quando tu vorresti fare lo scrittore, non è cosa facile:
“Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho il coraggio.“
Ho tirato fuori il libro dallo scaffale ieri sera, dopo aver saputo che lo scrittore vicentino era morto. Non ero andata oltre pagina 199: lo testimonia l’aletta ancora spiegazzata a mo’ di segnalibro.
Era un libro bellissimo, capace di raccontare in maniera così vivida il lavoro nel Nordest che non sono riuscita ad andare avanti. Mi sono ritrovata nella sua repulsione, ma mal sopportavo la sua controreazione, così sfrontata, arrogante, indisciplinata. Non riuscivo a reggere a tanta spietatezza: in fondo, stava parlando anche di me e del mio vissuto, la sua fisionomia e la sua storia mi era fin troppo familiare e spaventosa. Works è un’opera potente, e io non ho il coraggio.

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