Leo Mansueto, fra gli ideatori del Festival BIS (Benessere, Inclusione, Sostenibilità) che ci sarà il prossimo 29 maggio a Milano, mi ha inviato in anteprima le domande che mi farà. Tra le tante, tantissime che mi ha anticipato, una mi ha particolarmente colpita:
Quand’è che abbiamo iniziato a pensare che lavorare debba per forza farci stare male?
Ci ho riflettuto, e ho un paio di possibili risposte. Ma qui, anche per non spoilerare quello che dirò al Festival, vorrei provare a identificare quand’è che abbiamo smesso di pensare che lavorare debba per forza farci stare male. Negli ultimi anni, la percezione del lavoro e del benessere da parte dei lavoratori ha infatti subito una trasformazione significativa. La retorica del sacrificio, che ci ha accompagnato per generazioni, ha portato molti a credere che il lavoro debba necessariamente essere fonte di stress e malessere. Ma sono successe essenzialmente quattro cose a cambiare le carte in tavola.
Si è rotto il patto lavoratore-azienda.
Precarietà, stipendi al palo da decenni, zero formazione, mancata sicurezza, fisica e psicologica, delocalizzazioni, licenziamenti. Dopo decenni di prosperità nella seconda metà del secolo scorso, gli anni Duemila si sono aperti con il venire meno di tutti i fattori hard che legavano le persone alle aziende.
La pandemia ha resettato le priorità
Con l’emergenza Covid sono venute con forza a galla alcune esigenze da parte dei lavoratori. Aspettative che erano presenti anche precedentemente, ma che nessuno aveva all’epoca il coraggio di esprimere, in quanto fortemente stigmatizzate. 5 anni fa è emerso con prepotenza un senso di frustazione collettiva e al lavoro si è chiesto maggior senso e significato, e che si provasse a ripartire da ciò che ci rende felici e soddisfatti, sia a livello personale che professionale.
Il benessere è entrato in azienda
Ne sono conseguite azioni da parte delle aziende. Del resto, se si chiede al lavoratore di contribuire attivamente agli obiettivi dell’azienda, anche l’impresa, a sua volta, ha vantaggi nell’occuparsi del benessere personale dei suoi collaboratori. Una maggiore attenzione al wellbeing e iniziative in ambito DEI sono andate in questa direzione nell’ultimo lustro, anche se solo nel lungo periodo si potrà dire chi ha agito per moda e chi invece ha supportato con convinzione questi progetti.
Le generazioni più giovani dettano le nuove regole
Proprio perché nati a cavallo del secolo, e in corrispondenza con il declino del patto fra azienda e lavoratore, sempre più under 30 cercano un senso nel lavoro che fanno, desiderano avere un impatto sociale, rifiutano il compromesso tra salute e produttività. Inoltre, avendo letteralmente il mercato del lavoro globale davanti, competenze digitali innate e un vantaggio demografico non da poco (la loro coorte è la più scarna di sempre), possono permettersi di essere molto netti rispetto alle condizioni che sono disponibili ad accettare. Vale chiaramente per chi ha avuto la possibilità di studiare, per chi ha mobilità, per chi, in definitiva, gode di potere negoziale e spalle parate. Ma comunque è un unicum nella storia del lavoro recente italiano. come si evince anche da uno studio di Valore D.
Sono queste a mio avviso le quattro ragioni principali per cui molti hanno smesso di pensare che lavorare debba per forza farci stare male. E questa sarà anche parte della risposta che darò al Festival. Per tutte le altre, veniteci a trovare, ci si iscrive da questo link https://www.eventbrite.it/e/bis-benessere-inclusione-sostenibilita-ecologia-delle-relazioni-tickets-1345038298759?aff=oddtdtcreator

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