
È da sabato scorso che ci penso. “Faticoso. Da rincorrere. Non per tutti.” Queste sono state le tre definizioni che il professor Paolo Gubitta ha usato per parlare del lavoro del futuro. E ha ragione, io credo, almeno dalle spiegazioni che io stessa ho provato ad abbinare a quelle parole chiave.
Faticoso, perché è un lavoro molto diverso da quello che abbiamo conosciuto per decenni, ovvero piuttosto ben definito (addirittura in mansionari), stabile, sufficientemente garantito a livello di diritti.
Da rincorrere, per un disallineamento tra aspettative e realtà (oltre che tra proiezioni familiari e scolastiche), per una concorrenza che ha tante dimensioni mai viste prima, per dei percorsi di carriera sempre più a ostacoli.
Non per tutti, perché molto selettivo, premiante l’eccezionalità, poco inclusivo.
Sono 3 cattive notizie rispetto al lavoro del futuro? Non necessariamente, a patto che si crei consapevolezza che queste sfide esistono, e vanno gestite prima che ci facciano soccombere.
Non sono cattive notizie se
- ci aiutano ad aiutare i giovani a orientarsi e chi lavora già a reinventarsi
- lle diverse parti in causa (scuole, università, aziende, territori, sindacati) non guardano pregiudizialmente le une alle altre, ma lavorano in sinergia
- se la smettiamo di parlare di lavoro in maniera approssimativa e per sentito dire. Se siamo disponibili a studiare tanto e a comprenderne le complessità, possiamo duventare pionieri del lavoro del futuro
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