Qualche mese fa Matteo Roversi, founder di Cosmico, mi ha chiamato per propormi un’idea: mettere insieme la visione umanista e quella data-driven per ragionare su quali saranno gli impatti dell’Intelligenza Artificiale sul lavoro.
Per questo, e per inaugurare la loro nuova sede in Fondazione Feltrinelli a Milano, mi ha invitato insime a Stefano Gatti, Head of Data & Analytics di Nexi, per una nuova puntata-evento del podcast “Work after”–
Essere intervistata insieme a un data scientist mi ha dato l’occasione di fare quello che mi piace di più: attraversare i confini tra mondi apparentemente distanti e cercare i punti di contatto. Non per trovare una sintesi facile, ma per far emergere le tensioni feconde, le domande che contano, i nodi che non si sciolgono con una formula. Non per cercare convergenze forzate, ma per scoprire come questi due approcci possano arricchirsi a vicenda — se si sanno fare le domande giuste. Perché è lì, nelle domande, che si nascondono i veri nodi concettuali. E spesso, è proprio chi viene da percorsi diversi a porre quegli interrogativi che aprono nuove prospettive.
Quando il dato incontra la domanda giusta
Il punto infatti non è solo “cosa ci dicono i dati”, ma “che domande ci permettono di porre”. E qui il dialogo tra umanisti e data scientist può diventare potente. Perché se i dati ci aiutano a vedere pattern, l’approccio umanista ci aiuta a cogliere le eccezioni, le sfumature, i significati. E quando questi due sguardi si incontrano, non si tratta più di convergenza: si tratta di espansione.
L’AI non è un destino, è una scelta
L’intelligenza artificiale sta entrando nei processi, nei ruoli, persino nei linguaggi delle organizzazioni. Ma non si tratta di un fato che ci limitiamo a subire: è anzi uno strumento che ci costringe a fare scelte. E le scelte non si fanno solo con le metriche, si fanno con la cultura, con l’etica, con la capacità di immaginare scenari alternativi.
Che lavoro vogliamo difendere?
Una delle domande che mi porto dietro è questa: che tipo di lavoro vogliamo proteggere, valorizzare, reinventare? Non basta dire “il lavoro umano è insostituibile”. Bisogna capire quale lavoro umano ha ancora senso, e perché. E questo richiede un esercizio di verità, non di nostalgia o di efficienza tout court.
Quale ruolo per le generazioni più giovani?
Spesso si dice che le nuove generazioni sono più pronte all’AI. Ma pronte a cosa? Se l’AI viene usata solo per ottimizzare, i giovani rischiano di essere i primi a essere sostituiti perché non conoscono cosa c’è dietro a certi numeri e a certe domande. Eppure, sono anche quelli che possono immaginare modelli nuovi, meno gerarchici, più fluidi. Ma deve essere creato lo spazio affinché possano farlo.
Nuovi approcci al lavoro, nuovi modelli di leadership trasformativa
Per chi lavora, le regole stanno cambiando: non basta eseguire, bisogna interrogare. Non basta adattarsi, bisogna esporsi. E soprattutto, bisogna tornare a coltivare ciò che l’AI non può replicare: le relazioni, la cura, la capacità di dare senso. Per le organizzazioni, la sfida è dare spazio alla sperimentazione e alla fiducia vera.
Mi unisco a quanto sintetizzato dal nostro host Matteo Roversi: l’AI non risolverà per magia i nostri problemi, ma ci costringerà a guardarli meglio. E forse, ci darà l’occasione di porci domande più radicali, più belle, più urgenti. La più importante, per entrambi, resta questa: per cosa vale la pena che gli esseri umani dedichino tempo ed energie? La risposta non riguarda solo il futuro del lavoro. Riguarda il futuro del senso che diamo alle nostre vite.
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