
“Work Friend” è il nome della posta del cuore sui temi professionali di “New York Times”, curata fino a poco tempo fa da Roxane Gay. Nella sua lettera di addio ai lettori, dopo aver curato la rubrica per 4 anni e prima di passare il testimone a una nuova columnist, ha scritto cose verissime e durissime sul mondo del lavoro, che ho provato a tradurre, selezionando e sintetizzando i messaggi che più mi hanno colpita*.
Non una puntata di “Sottolineature” molto ortodossa, ma pazienza.
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Lavorare, per molti di noi, significa desiderare, desiderare, desiderare. Desiderare di essere felici sul posto di lavoro. Sentirsi utili e rispettati. Crescere professionalmente e realizzare le proprie ambizioni. Essere riconosciuti come leader. Avere la possibilità di condividere ciò in cui si crede con le persone con cui si trascorrono otto o più ore al giorno. Essere fedeli e sperare che i datori di lavoro ricambino. Essere retribuiti equamente. Prendersi del tempo libero per ricaricarsi e godersi i frutti del proprio lavoro. Conquistare il mondo. Fare un lavoro sufficientemente buono e arrivare alla pensione.
Ti preoccupi che sia troppo tardi per perseguire le tue passioni o fare un cambiamento di carriera drastico. Hai trovato il lavoro dei tuoi sogni e speravi di poter rimanere nella tua posizione per il resto della tua vita lavorativa, se solo potessi liberarti di un collega terribile. Vuoi un lavoro facile e privo di pensieri, da lasciare in ufficio alla fine della giornata, oppure vuoi un lavoro significativo e coinvolgente.
Francamente, una vita professionale appagante ed equa non dovrebbe essere utopia. Dovrebbe essere la nostra realtà. È sorprendente vedere quante persone siano profondamente infelici sul lavoro, intrappolate da circostanze al di là del loro controllo, vulnerabili a luoghi di lavoro tossici e a aspettative culturali tossiche legate al lavoro. Non dovrebbe essere così. Non dovrebbe essere così difficile.
Non dovremmo dover soffrire o lavorare in più posti o tollerare condizioni intollerabili solo per sopravvivere, ma molti di noi lo fanno. Ci sentiamo intrappolati e impotenti e talvolta disperati. Tolleriamo l’intollerabile perché non c’è scelta. Facciamo domande alle quali già conosciamo le risposte perché il cambiamento è spaventoso e non possiamo davvero rischiare la perdita di uno stipendio quando c’è da pagare l’affitto.
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